3 gennaio 2013

Lo psicologo nei gruppi classe del primo anno: tra agiti, parole e sviluppo del pensiero*


 di Sandra Gambardella, Maria Giudizioso  e Cinzia Saponara 

Premessa
Il presente lavoro è frutto dell’esperienza biennale realizzata presso l’Istituto Superiore Statale “Pitagora” di Pozzuoli.
Nel corso dei due anni, in coppia, abbiamo condotto incontri di rimotivazione e di riorientamento a cadenza mensile in otto prime classi ad indirizzo professionale e tecnico, segnalate come tra le più “problematiche” e a maggior rischio di dispersione scolastica, finalizzati al potenziamento del gruppo classe dal punto di vista affettivo- relazionale e, indirettamente, da quello formativo e didattico.
Tali incontri hanno visto la partecipazione di una psicologa tirocinante in qualità di osservatrice: l’osservazione delle dinamiche di gruppo e la restituzione alla classe di quanto emerso negli incontri, attraverso la lettura dei protocolli stilati, ha assunto un’importante funzione di mantenimento della memoria del gruppo e di rispecchiamento, agendo come una sorta di “moviola” che ha dato la possibilità ai ragazzi di vedersi, conoscersi e riconoscersi.
In affiancamento al lavoro svolto in aula sono stati realizzati incontri periodici, condotti da Cesare Moreno, con la nostra partecipazione e quella dei docenti coordinatori delle stesse classi, destinati alla discussione in gruppo dei protocolli di osservazione, al confronto su casi problematici e alla progettazione partecipata di possibili strategie di intervento e di recupero. 

L’intervento dello psicologo con il gruppo-classe
Nella pratica professionale di noi psicologi, nel settore della scuola, ci troviamo spesso davanti alla richiesta insistente di fornire aiuti concreti, suggerimenti pratici, indicazioni operative precise o al desiderio di delegare totalmente all’“esperto” il “problema”.
La domanda implicita da parte dei docenti sembra essere: “Cosa e come devo fare?” oppure “Risolvetelo voi”. Questa richiesta di soluzioni preconfezionate e/o miracolistiche ci sembra proporzionale allo stato di profonda frustrazione, stanchezza e sconforto che spesso vivono gli insegnanti.
Il principio di base che ha accompagnato il nostro lavoro in aula è stato quello di non colludere con tali richieste, ma di proporre uno spazio di pensiero e di riflessione sulle dinamiche, sulle emozioni, sui comportamenti che si strutturano all’interno del gruppo-classe attivando un’area intermedia capace di risvegliare la voglia di pensare, di parlare per capirsi e per confrontarsi (Giori, 1998).
Ci è sembrato infatti importante proporre lo psicologo come una figura di mediazione sia in senso orizzontale, tra i membri del gruppo classe, sia in senso verticale tra gruppo classe e docenti. Crediamo che la creazione e la strutturazione del gruppo classe come gruppo, non solo di lavoro (Bion, 1961), ma anche come gruppo affettivo sia un elemento utile alla prevenzione della dispersione scolastica attraverso la creazione di un clima relazionale positivo e la promozione della partecipazione alle attività scolastiche ed extrascolastiche.
Come conduttrici del gruppo-classe abbiamo provato a stimolare il gruppo a riflettere su se stesso, a capire il perché delle cose, a far comprendere come in un gruppo ogni comportamento possa essere letto come risposta alla situazione o ad altri comportamenti precedenti, a far pervenire il gruppo alla consapevolezza che i comportamenti sorti al suo interno solo da esso possono essere modificati.
Com’è noto ogni gruppo subisce periodicamente dei blocchi nella circolarità, ovverosia, si instaurano resistenze e dinamiche difensive che gli impediscono di funzionare efficacemente come gruppo di lavoro e rischiano di cristallizzare le potenzialità della vita gruppale (Bion, 1961; Giori, 1998).
Il fenomeno che abbiamo osservato più frequentemente come difesa dalla nascita del gruppo è stato quello dell’agito, della “fuga” dalla possibilità di espressione e di riflessione sulle proprie emozioni attraverso continue richieste di lasciare la classe (per andare in bagno, al bar o per “prendere un po’ d’aria”). Degno di nota a tal proposito, il fatto che, in alcune classi, i ragazzi rimanessero per tutto il tempo con i giubbotti indosso e gli zaini in spalla. E’ spesso emerso in molti ragazzi un vissuto di disagio e di vergogna legato all’espressione delle proprie emozioni, sentite talvolta come segno di debolezza.
Le istituzioni educative, per come sono organizzate, sono contesti che non facilitano sempre la crescita emozionale dei giovani: il rendimento e i risultati rappresentano il principale, e spesso l’unico criterio considerato per la valutazione degli studenti, non prendendo nella giusta considerazione l’importanza complessiva dell’esperienza di vita (Adamo et al., 2003).
Talvolta l’agito si è manifestato sotto forma di aggressività espressa con litigi, battute sarcastiche sui compagni, attacchi reciproci e generalizzati o con la formazione di sottogruppi contrapposti in lotta tra loro (“Sembra che l’altra fila ci sfidi”) o ancora con un’aggressione costante e concentrata verso un membro percepito come debole e trasformato in vero e proprio capro espiatorio (“Abbiamo avuto la sospensione di classe perché P. è immaturo”, “Chi ha il sostegno viene sempre promosso”).
Durante il percorso molti ragazzi hanno esternato un vissuto di confusione rispetto alle regole scolastiche, che sono apparse loro come incongruenti e/o contraddittorie (a volte severe altre indulgenti) e, al contempo, il bisogno del limite che, oltre ad avere una funzione di barriera di contenimento, permette lo sviluppo e la crescita.
“Lo stesso studente può essere turbato dal proprio comportamento sfrenato” e l’incapacità dell’insegnante “a imporgli dei limiti lo lascia solo ad affrontare i propri sentimenti distruttivi. Se, quindi, l’insegnante fa in modo di stabilire precisi limiti e barriere, questo, in genere, produce un grande sollievo” (Salzberger- Wittenberg et al., 1983, p. 108).

Demotivazione o disinvestimento?
Il fenomeno della dispersione scolastica rappresenta un problema complesso che non si identifica unicamente con l’abbandono, ma si presenta con un complesso di manifestazioni quali i mancati ingressi, le bocciature, le frequenze irregolari, i ritardi rispetto all’età regolare, la qualità scadente degli esiti ecc. Esisterebbe una stretta correlazione tra dispersione scolastica e condizione socio– culturale della famiglia, irregolarità nella carriera scolastica, scollamento con la realtà extrascolastica nei suoi vari aspetti sociali, dinamiche soggettive dello studente che tende all’autoemarginazione e alla demotivazione (MPI, 2000).
La maggior parte dei ragazzi/e che hanno partecipato al progetto, più che da una tipologia sociale di appartenenza, sembrano accomunati da quel fenomeno definito come “marginalità scolastica”, connotato da demotivazione, disaffezione, disinteresse, noia ecc., che innesca una lunga catena di insuccessi, in primo luogo l’insuccesso scolastico che contribuisce, a sua volta, a generare insuccesso individuale sul piano psicologico e sociale. Ci sarebbe, in altre parole, una stretta interrelazione tra disadattamento scolastico e disadattamento personale (MPI, 2000).
Alcuni sembrano arrivare al primo anno delle superiori già delusi, demotivati, con una storia di precedenti fallimenti scolastici, in bilico tra “rimanere e lasciare”, altri sembrano solo aspettare i 16 anni per assolvere l’obbligo scolastico:
“S. dice che lui non è portato per lo studio. I professori alla scuola superiore bocciano e quindi si crea selezione. In seconda, arrivano solo i “buoni”…”.
“D. dice di essere stato sospeso e che ora fa di tutto per farsi sospendere di nuovo, aspettando i 16 anni e con essi il termine dell’obbligo scolastico”.
“A. ha 17 anni. Dice di avere 10 materie da recuperare, è stata già bocciata due volte in terza media. Vorrebbe fare un corso di estetista o parrucchiera”.
Altri invece vorrebbero studiare, andare avanti, ma anche loro sembrano essere penalizzati dalla confusione, dal caos generato in classe e “qualcuno si perde, si chiude”.
“G. ha 15 anni, è stato bocciato in terza media, dice di venire in questa scuola perché è facile. Anche R. dice che ha scelto la scuola per la sua facilità, aggiungendo che è facile perché non hanno i compiti a casa.”
“L. dice che non hanno i libri ma solo alcune fotocopie. A lui piace il mestiere, non la scuola. Vorrebbe studiare, ma qui non si fa niente”.
Paradossalmente gli stessi ragazzi che raccontavano di aver scelto un determinato indirizzo di studi per la sua facilità lamentavano il fatto di “non fare niente”, di non studiare abbastanza, di non avere compiti a casa o libri di testo. Chiedevano implicitamente e sicuramente con una buona dose di ambivalenza, di studiare di più, di imparare di più, che fosse richiesto loro da parte dei professori un maggior impegno.
Spostando l’attenzione dalla demotivazione, vista come tratto di personalità degli allievi, e ipotizzandola come il prodotto della relazione tra allievi e istituzione scolastica, si potrebbe forse riconoscere che rendendo i programmi sempre più leggeri, non pretendendo libri di testo o compiti a casa si sta comunicando agli studenti che non c’è nessun investimento, nessuna scommessa su un loro apprendimento. Ciò può avere una ricaduta negativa sull’autostima di ragazzi già così poco capaci di valorizzare la formazione data la loro precedente storia scolastica (Carli, 2003).
Volendo seguire Carli (2003, p. 157): “La soluzione potrebbe essere quella di stilare programmi sempre più impegnativi?”.

Conclusioni
Il ruolo dello psicologo nelle situazioni scolastiche come quella appena descritta sembrerebbe associabile alla funzione di un “oggetto transizionale” (Winnicott, 1951; Winnicott, 1971), ossia un “oggetto non-me”, portatore di un cambiamento e di un miglioramento della relazione allievo-insegnante e, dunque, “oggetto trasformativo” della relazione stessa. Tale associazione nasce da una visione dello “spazio psicologico” quale area intermedia tra i ragazzi e gli insegnanti, luogo di mediazione di stati e contenuti affettivi.
E’ possibile, infatti, riconoscere un’analogia tra le funzioni dello psicologo e quelle dell’oggetto: di holding (Winnicott, 1965), in quanto contenitori delle angosce e delle condizioni di malessere; di promotori di uno spazio intermedio tra il mondo interno dell’allievo e quello esterno della scuola.
Ciò favorisce l’attuarsi di “fenomeni transizionali”, regno del simbolico, della creatività e della parola, “dove la parola non è un dato ma è una conquista: a partire dal silenzio, dall’urlo, dal gesto, dal chiasso” (Melazzini, 2011, p. 168).
Ci è sembrato che, durante il percorso effettuato, i ragazzi abbiano apprezzato soprattutto la possibilità di verbalizzare e di veder riconosciute le proprie esperienze emotive, la possibilità di comprendere anche il punto di vista dell’altro (compagno o insegnante anche attraverso attività di role- playing), provando a mettersi nei suoi panni e così, attraverso un “gioco di specchi”, conoscere meglio se stessi.
“S. ha sempre accusato O. in quanto studioso, calmo e appartenente alla fila contrapposta. Oggi ci dice di aver capito il comportamento di O.. Qualche giorno fa è successo che era stranamente preparato per il compito in classe, così ha potuto sperimentare su di sé come si può sentire O. quando tutti lo chiamano ripetutamente affinché passi il compito senza lasciargli il tempo di pensare un attimo.”
Possiamo concludere che, in generale, il consolidamento del gruppo-classe e l’aumento della circolazione della comunicazione tra pari, ha generato piccoli ma significativi movimenti di attivazione, per cui, alcuni studenti hanno richiesto, grazie anche alla disponibilità dei propri docenti, di effettuare incontri extrascolastici finalizzati a colmare le lacune in alcune materie, mentre altri hanno deciso di organizzare assemblee di classe per discutere delle problematiche inerenti le regole scolastiche.
“La classe ha organizzato una assemblea durante la quale, senza fare tanto chiasso, si sono confrontati sulle regole che non rispettavano. Ora stanno provando a controllarsi a vicenda per far sì che vengano rispettate… anche se è difficile”.
Ci è sembrato che nelle classi dove è stata data l’opportunità di contribuire alla definizione di norme comuni e negoziate, queste hanno avuto maggiore probabilità di essere rispettate e difese.





* Pubblicato in "Una stanza tutta per noi.  Una esperienza di collaborazione tra scuola e volontariato alla ricerca di nuove pratiche educative" a cura di Maria Gaita, Dora Gambardella e Sandra Gambardella - Gesco Edizioni, 2012.

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